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Il Giornalino

Tutti i giornalini dell'unità pastorale

Chiunque tu sia, cristiano, ateo, musulmano, sikh, troverai questo foglio nella cassetta postale in mezzo ad una montagna di dépliants pubblicitari, bollette, avvisi... Prima di buttare, accogli almeno il nostro cordiale saluto. Ti vogliamo bene. Se poi ti incuriosisci, leggi questo racconto che ti dedichiamo.

QUANDO UN BACIO CAMBIA LA VITA. (Apri la versione PDF)

C'era una volta un vecchio che non era mai stato giovane. In tutta la sua vita, in realtà, non aveva mai imparato a vivere. E non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire. Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Tutto ciò che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva. Passava le sue giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il cielo che il Signore ogni giorno puliva, anche per lui, con la soffice bambagia delle nuvole. Qualche viandante lo interrogava. Era così carico d'anni che la gente lo credeva molto saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza.
«Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?» chiedevano i giovani.
«La felicità è un'invenzione degli stupidi» rispondeva il vecchio.
Passavano uomini desiderosi di rendersi utili al prossimo. «In che modo possiamo aiutare i nostri fratelli?» chiedevano.
«Chi si sacrifica per l'umanità è un pazzo» rispondeva il vecchio, con un ghigno.
«Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?» gli domandavano i genitori.
«I figli sono serpenti - rispondeva il vecchio - Da essi ci si possono aspettare solo morsi velenosi».
Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio: «Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell'anima».
«Fareste meglio a tacere» brontolava il vecchio.
Poco alla volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo. Dal suo angolo squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano uccelli, il vecchio malvagio faceva giungere un vento gelido sulla bontà, l'amore, la generosità che, investiti da quel soffio mortifero, appassivano e seccavano.
Tutto questo dispiacque molto al Signore che decise di rimediare. Chiamò un bambino e gli disse: «Va' a dare un bacio a quel povero vecchio».
Il bambino obbedì. Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia ru-gosa. Per la prima volta il vecchio si stupì. I suoi occhi torbidi divennero di colpo limpidi. Perché nessuno lo aveva mai baciato. Così aprì gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.

NESSUNO SI SALVA DA SOLO (Apri la versione PDF)

O ci salviamo insieme, o non ci salveremo mai. Anche il rapporto con Dio prima di essere individuale è comunitario.

Il credente (come pure l'uomo) non si fa da solo, ma insieme; sono gli altri che lo stimolano, lo fanno crescere. L'idea di fraternità dovrebbe contrassegnare la vita della Chiesa. Il centro non è il prete, ma il popolo di Dio, la comunità.

Il cristianesimo non è fondato sul dovere, sulle funzioni, ma sulle persone e sulle relazioni. Persone animate dalla passione. Al centro non possono esserci delle attività, fossero pure delle attività sacramentali, catechistiche, “religiose”, ma la passione, le relazioni.

Oggi la cultura e la teologia stanno riscoprendo e valorizzando il "cuore" considerato come quello non che acceca, ma che illumina l'intelligenza. Solo uno che ama vede chiaro, scriveva Saint-Exupéry nel “Piccolo Principe”.

Anche Dio è un abbraccio di relazioni tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Papa Francesco lo afferma nella Lettera Laudato si': «Tutte le creature sono connesse tra loro…tutto è in relazione». Nulla esiste da solo, neppure Dio, nulla esiste a prescindere dalle relazioni.

Proveniamo da secoli di individualismo che ha così esaltato il privato da appannare e affossare il valore della comunità. La comunità è ancora considerata una limitazione per la libertà del singolo. Anche la fede è ancora vissuta per lo più così. Essa valorizza il rapporto con Dio e meno, molto meno, il rapporto con la comunità considerata periferica e irrilevante nei riguardi della fede. Pure i sacramenti erano intesi come l'incontro con Dio e non come l'inserimento e la crescita nella comunità.

Una secolare catechesi preoccupata della "salvezza" dei singoli, ha oscurato il senso della comunità. Il concilio Vaticano II ha scritto: «Piacque a Dio di santificare e di salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (LG 9). Prima siamo comunità, Chiesa, e poi ci incontriamo con Dio. Christos Yannaras, teologo ortodosso, dichiara: «Nessun sacramento mira alla santificazione dell'uomo come individuo, ma al suo inserimento in quella comunione di persone che si chiama Chiesa». (cfr. La cella del vino, ed. Servitium).

Nella Lettera La gioia del Vangelo (n. 113) Papa Francesco propone questa prospettiva: «Dio ha scelto di convocare gli uomini come popolo e non come esseri isolati. Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo né con le proprie forze».

 

La parrocchia oggi: o cambia o presto morirà… (Apri versione PDF)

Riflessione di don Andrea Fontana in margine alla Nota CEI "Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia"

Il problema che oggi emerge dal dibattito sulla parrocchia è questo: la parrocchia è ancora significativa per il mondo contemporaneo?

Proponiamo alcune conclusioni evidenti e condivise anche dal documento CEI sulla parrocchia.

  1. I compiti della parrocchia: legittimi nel passato, inadeguati oggi: non è più punto di riferimento religioso unico e abituale per la gente del territorio; continua a offrire quasi soltanto servizi religiosi "sacramentali"; è luogo di riferimento per una vita cristiana che nel passato nasceva e si sviluppava altrove (in famiglia e sul lavoro), mentre oggi s'è persa ogni trasmissione delle fede cristiana (nella famiglia, ambiente di lavoro…).
  2. La parrocchia a rischio di collasso: per l'incapacità, causata dalla scarsità dei preti e dalla loro sempre più avanzata età, di adempiere i suoi compiti istituzionali: infatti, si pesa l'importanza della parrocchia in base al numero degli abitanti, perché questo significa un carico più o meno grande di matrimoni, Prime Comunioni, Cresime, funerali…ma avvalla un equivoco: cioè, la convinzione che quegli abitanti siano automaticamente cristiani, mentre sono solo ipotetici destinatari dell’annuncio del Vangelo.
  3. La parrocchia rifugio sicuro. La parrocchia rappresenta il rifugio ma l'appartenenza di molti non è motivata primariamente dalla fede in Cristo, ma da un rapporto di vicinanza affettiva al parroco: prova ne sia che quando cambia il parroco, le presenze si destabilizzano, la comunità deve ridisegnare le proprie strutture, i piani pastorali etc…
  4. La parrocchia come figura di una chiesa ministeriale: in cui ognuno ha il suo carisma da esprimere e il suo servizio da svolgere: molti preti sono stati formati per essere "pastori" unici ed indiscussi, gli organi di partecipazione laicale sono puramente "consultivi", la parrocchia rimane la casa del parroco.
  5. La parrocchia della tradizione e dell'immaginario collettivo. La parrocchia offre occasioni, apre le porte a tutti nella solidarietà, cura i bambini al posto dei genitori, esibisce tradizioni che sollecitano la partecipazione in momenti particolari (Natale, Pasqua, i Morti…funerali, matrimoni) con intensa carica emotiva… Ma la gente viene, morde e fugge.
    La parrocchia è vista come colei che conserva la tradizione, l'infanzia, il bisogno di sacro, il campanile, l'oratorio, le recite natalizie, la premura, i ricordi; il luogo in cui abbiamo vissuto con emozione la Prima Comunione, i primi calci al pallone, la funzione di chierichetti…e tutto ciò rimarrà molto marginale e nostalgico nelle scelte dell'età adulta, quando "manca il tempo" per viverle ancora…
  6. L'esigenza di una "nuova" parrocchia: «Ma questa fotografia, ingiallita dal tempo, esprime ancora il Cristo che passa accanto alla gente e la orienta al Padre, permettendole di entrare nel Regno dei cieli»?
    Ci siamo fermati al primo passo: accogliere, solidarizzare, farsi amici, stabilirci accanto ai palazzi… ma non abbiamo mai fatto il secondo passo: «annunciate il Vangelo» (Mt 28, 18-20). La parrocchia, purtroppo, spesso si identifica con il parroco. Ma che ne è stato del nostro compito di incarnare in questo spazio di tempo e di territorio la presenza del Signore Vivente, salvatore del mondo, al di là del tempo e dello spazio?

Pasqua 2016 (Apri la versione PDF)

Mi colpiscono sempre, al ritorno di ogni Veglia Pasquale, di anno in anno, i racconti scarni dei 4 evangelisti nel loro tentativo di rinnovare l’annuncio, per la prima volta rivolto alle donne il mattino di Pasqua, che il Signore è Risorto. Ancora quest’anno, nel cuore della Grande Veglia, mi lascerò stupire da quel “perché cercate tra i morti il Vivente? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi ha parlato quando era con voi” (Lc 24, 5-6). Questi è l’annuncio risuonato la prima volta davanti ad un sepolcro vuoto. Già, come è possibile che l’Evento che fonda la mia povera fede di discepolo, Evento che non ha avuto testimoni, possa essere appeso al ricordo di una parola udita? La fede del cristiano appesa ad una parola per spiegare un Evento che puoi solo annunciare?!

Sono andato anch’io – da sempre lo desideravo - al sepolcro che gli archeologi indentificano con il sepolcro di Cristo. Queste identificazioni mi lasciano sempre un po’ scettico; comunque sembra molto probabile che, se non proprio in quel punto preciso, senz’altro in quei paraggi, sia stato deposto il cadavere di Cristo subito dopo essere stato deposto dalla croce: il luogo è appena fuori le mura di Gerusalemme, a ridosso del Calvario dove avvenivano le esecuzioni capitali; qui venivano deposti i cadevi dei delinquenti dopo la loro esecuzione. Probabile, dunque, che dopo la sua crocifissione Cristo sia finito lì.

UN RACCONTO PER INCOMINCIARE… (Apri la versione PDF)

Un turista si fermò, per caso, in un villaggio immerso nella campagna. La sua attenzione fu attirata dal piccolo cimitero. S'incamminò lentamente in mezzo alle lapidi. Cominciò a leggere le iscrizioni. La prima: Giovanni Tareg, visse 8 anni, 6 mesi, 2 settimane e 3 giorni. Un bambino così piccolo seppellito in quel luogo. Incuriosito, l'uomo lesse l'iscrizione sulla pietra di fianco, diceva: Denis Kalib, visse 5 anni, 8 mesi e 3 settimane. Una per una, prese a leggere le lapidi. Recavano tutte iscrizioni simili: un nome e il tempo di vita esatto del defunto, ma la persona che aveva vissuto più a lungo aveva superato a malapena gli undici anni. Fu preso da un grande dolore, si sedette e scoppiò in lacrime. Una persona anziana che stava passando gli chiese se stesse piangendo per qualche famigliare. «No, no, nessun famigliare» disse il turista «ma che cosa c'è di così terribile da queste parti per cui tutti muoiono bambini?». L'anziano sorrise e disse: «Non esiste nessuna maledizione. Qui seguiamo un'antica usanza. Quando un giovane compie quindici anni, i suoi genitori gli regalano un quadernetto, come questo qui che tengo appeso al collo. A partire da quel momento, ogni volta che uno di noi vive intensamente qualcosa apre il quadernetto e annota quanto tempo è durato il momento di intensa e profonda emozione. Si è innamorato: per quanto tempo è durata la grande passione? Una, due, tre settimane? E poi... la gravidanza o la nascita del primo figlio? E il matrimonio degli amici? E il viaggio più desiderato? E l'incontro con un amico che non si vedeva da tempo? E così continuiamo ad annotare sul quadernetto ciascun momento in cui assaporiamo l’emozione...Quando qualcuno muore, è nostra abitudine aprire il suo quadernetto e sommare il tempo in cui ha assaporato un sentimento intenso per scriverlo sulla sua tomba, perché secondo noi quello è l'unico, vero tempo vissuto».

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